Il dibattito sull’allocazione del Trattamento di Fine Rapporto (TFR) è tornato al centro dell’attenzione in Italia, spinto dalle proposte governative di incentivare il trasferimento automatico nei fondi pensione attraverso il meccanismo del silenzio-assenso. In questo scenario, giocano un ruolo cruciale i sindacati e i gruppi finanziari, che sostengono la misura per promuovere il risparmio previdenziale. Un elemento che non può essere ignorato nella scelta tra mantenere il TFR in azienda o destinarlo a un fondo pensione è il trattamento fiscale, che incide direttamente sui rendimenti netti.
Consideriamo l’esempio di un operaio metalmeccanico assunto dieci anni fa con una retribuzione annua lorda di 30.000 euro. Nel corso di questo periodo, il lavoratore ha accantonato circa il 7,41% della sua retribuzione come TFR. Se avesse mantenuto il TFR in azienda, il suo capitale si sarebbe rivalutato di circa 26.240 euro, grazie a una rivalutazione annua del 2,3% (1,5% fisso più il 75% dell’inflazione). Tuttavia, al momento del ritiro, il TFR sarà soggetto alla tassazione separata applicata alla media degli ultimi cinque anni di reddito, con un’aliquota media del 23%.
Se lo stesso operaio avesse scelto di investire il TFR in un fondo pensione bilanciato, con un rendimento medio annuo del 3%, avrebbe ottenuto una somma simile, ma con un vantaggio fiscale potenzialmente maggiore. Infatti, i rendimenti dei fondi pensione sono tassati con un’aliquota agevolata del 20% (12,5% sui rendimenti derivanti da titoli di Stato), e il capitale riscattato può beneficiare di un’ulteriore agevolazione fiscale, con un’aliquota che varia dal 15% al 9% a seconda degli anni di permanenza nel fondo. Il massimo sconto fiscale si ottiene dopo 35 anni di adesione al fondo pensione.
L’introduzione del meccanismo del silenzio-assenso, che destina automaticamente il TFR ai fondi pensione se il lavoratore non esplicita la sua volontà di mantenerlo in azienda, ha sollevato non poche polemiche. Questa politica è presentata come un vantaggio per il lavoratore, che avrebbe così accesso a rendimenti potenzialmente più alti e un trattamento fiscale più favorevole. Tuttavia, c’è chi sostiene che i veri beneficiari di questa misura siano le banche e i gruppi finanziari che gestiscono i fondi, i quali otterrebbero nuovi capitali da investire.
A complicare la decisione tra fondo pensione e TFR in azienda c’è il contesto economico globale, caratterizzato da una forte incertezza a causa delle tensioni geopolitiche e della crisi energetica. Le previsioni per il 2024 indicano un calo dell’inflazione al 3%, rispetto al 6,3% del 2023, con una discesa ulteriore al 2,5% nel 2025 (commissione europea)
Tuttavia, la crescita economica nell’Eurozona sarà debole, con una previsione di solo lo 0,8% per il 2024. Questo quadro influisce sui rendimenti dei fondi pensione, che potrebbero essere esposti alla volatilità dei mercati, mentre il TFR in azienda, pur garantendo rendimenti più bassi, si rivaluta in base all’inflazione e offre maggiore stabilità.
Per i lavoratori, la scelta tra mantenere il TFR in azienda o trasferirlo in un fondo pensione dipende da diversi fattori. I giovani lavoratori con decenni davanti al pensionamento potrebbero beneficiare dei vantaggi fiscali e dei potenziali rendimenti più elevati dei fondi pensione, a patto di accettare il rischio legato alla volatilità dei mercati. Al contrario, i lavoratori più vicini alla pensione potrebbero preferire la stabilità del TFR in azienda, seppur con un trattamento fiscale meno favorevole. La decisione resta complessa, soprattutto in un momento storico segnato da incertezze economiche e geopolitiche, e richiede un’attenta valutazione dei propri obiettivi di risparmio e della propria propensione al rischio.