Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, ha recentemente espresso forti preoccupazioni riguardo alla situazione di Stellantis, sollecitando un confronto urgente con il governo Meloni. Tuttavia, sebbene le sue dichiarazioni evidenzino problemi reali del settore automobilistico, mancano di una visione concreta e globale per affrontare e risolvere la crisi. Landini si limita a richiedere ulteriori tavoli di confronto e interventi pubblici, proponendo finanziamenti a favore dell’impresa, che però ricadrebbero sui contribuenti. A quanto pare, la lezione della FIAT, che dopo aver incassato una quantità enorme di risorse statali è stata venduta a proprietari francesi, non è servita. È triste constatare che la classe dirigente italiana, invece di ricercare soluzioni realistiche e praticabili, tenga conto delle dinamiche globali che avvantaggiano gli stranieri, piuttosto che valorizzare le risorse interne.
Landini denuncia con fermezza la mancanza di investimenti in nuove tecnologie e la crescente competizione proveniente dalla Cina. Tuttavia, la sua analisi ignora alcuni aspetti cruciali. La competizione globale non può essere risolta semplicemente con incentivi governativi. Paesi come la Cina hanno già superato l’Italia su molti fronti, investendo pesantemente in ricerca e sviluppo, intelligenza artificiale e produzione di auto elettriche. L’Italia, vincolata dalle normative europee e gravata da un forte indebitamento, non può limitarsi a finanziamenti statali. Serve una strategia industriale più ampia che Landini, purtroppo, non sembra voler affrontare se non con enunciazioni vaghe prive di senso pratico.
Landini si è trovato in una posizione paradossale nel suo continuo elogio a Mario Draghi, una figura che ha avuto un ruolo chiave nella svendita del patrimonio industriale italiano sin dal 1992. Draghi, fautore dell’apertura incontrollata dei mercati finanziari e delle privatizzazioni, è in parte responsabile dell’erosione della sovranità economica italiana. Eppure, Landini continua a lodarlo, ignorando come abbia favorito le élite finanziarie a scapito dei lavoratori. È difficile comprendere come si possa difendere un sistema che ha messo in ginocchio il Paese, svendendo aziende e riducendo le opportunità per i lavoratori italiani.
Negli ultimi decenni, la CGIL ha continuato a richiedere tavoli di confronto con il governo, ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Landini insiste nel voler negoziare nuovi finanziamenti per Stellantis e altre grandi imprese, ma questo approccio perpetua un sistema che non garantisce benefici duraturi ai lavoratori. I fondi pubblici destinati alle grandi aziende non migliorano la stabilità lavorativa né incentivano investimenti significativi in nuove tecnologie. Questi tavoli sembrano più un modo per giustificare il ruolo sempre più marginale del sindacato, che ha perso incisività e potere contrattuale. Landini, che una volta incarnava una forza dirompente, sembra essersi trasformato in un segretario di un sindacato debole, incapace di misurarsi con una realtà che richiede soluzioni pratiche e innovative.
Se la situazione non fosse tanto seria, lo sciopero dei metalmeccanici del 18 ottobre farebbe persino sorridere. Un’astensione dal lavoro, pensata per contrastare una società predatrice come Stellantis, avrebbe senso solo se fosse in grado di infliggere un reale danno economico all’impresa. Tuttavia, in un contesto di surplus produttivo, lo sciopero finisce per penalizzare solo i lavoratori, mentre l’azienda ne trae beneficio risparmiando sui costi del lavoro. I veri scioperi, quelli che hanno una reale possibilità di successo, vengono spesso preceduti da uno stato di agitazione, che obbliga la controparte a negoziare. In questo caso, però, lo sciopero sembra essere un ulteriore esempio della debolezza sindacale.
Landini non manca mai di parlare di lotta contro la precarietà e la povertà, ma nel farlo non sembra rendersi conto dell’inefficacia delle sue denunce. Piuttosto che affrontare le proprie contraddizioni, che stanno rendendo il sindacato sempre meno credibile, Landini si rifugia in prese di posizione di facciata. La CGIL stessa, sotto la sua guida, ha iniziato a licenziare i propri dipendenti, in alcuni casi persino illegalmente, utilizzando gli stessi strumenti giuridici che critica pubblicamente. Questa doppia morale è evidente: come può un sindacato pretendere di rappresentare i lavoratori quando non è in grado di difendere i propri dipendenti?
Il più grande fallimento di Landini è la sua incapacità di superare i limiti imposti dal neoliberismo e dal globalismo, preferendo uniformarsi all’élite finanziaria rappresentata da figure come Draghi. La sua visione manca di prospettiva. Landini sembra ignorare che un nuovo mondo multipolare sta emergendo dalle ceneri del globalismo, e che senza riconquistare la sovranità monetaria ed economica, l’Italia non potrà mai affrontare efficacemente la crisi. La sua retorica, una volta potente e convincente, si è trasformata in una recitazione stanca e logora.
Il futuro dei lavoratori italiani non sarà mai luminoso finché il Paese resterà vincolato ai diktat dell’Unione Europea e della NATO, due organizzazioni che impediscono all’Italia di operare in un contesto di pace e collaborazione internazionale. L’Italia è stretta da vincoli che le impediscono di decidere autonomamente le proprie politiche sociali ed economiche. Se Landini non è in grado di riconoscere questi limiti, il sindacato continuerà a perdere credibilità e i lavoratori rimarranno senza una reale rappresentanza.
La CGIL e la sinistra italiana sono ormai un lontano ricordo di ciò che furono. Una volta baluardo dei diritti dei lavoratori, oggi questi soggetti sono divenuti parte del problema. Landini, che una volta prometteva di guidare il cambiamento, è rimasto intrappolato in un sistema che lui stesso sembra non riuscire a comprendere appieno. Senza una svolta radicale nella visione e nelle politiche, la CGIL rischia di diventare irrilevante, incapace di difendere i diritti dei lavoratori e di portare avanti una vera battaglia per la giustizia sociale.