Nel panorama politico e sindacale italiano, il tema degli scioperi generali si ripresenta ciclicamente, quasi come un rituale consolidato. Ogni anno, la CGIL, con Maurizio Landini alla guida, annuncia mobilitazioni contro le politiche economiche del governo in carica, denunciando austerità, sacrifici e tagli. Lo schema si ripete, con variazioni minime, quasi fosse un copione già scritto. Tuttavia, l’effettiva efficacia di queste iniziative è sempre più messa in discussione, sia dai critici esterni che dagli stessi lavoratori.
Il giornalista Andrea Cangini, nel suo recente articolo su Formiche.net, riflette questo scetticismo, riducendo l’ennesimo sciopero generale proclamato da Landini a poco più di una “tazza di brodo”, citando il leader socialista Filippo Turati. Un giudizio tagliente che, tuttavia, si limita a graffiare la superficie del fenomeno, senza analizzare a fondo le dinamiche che rendono queste mobilitazioni sempre meno incisive.
Lo sciopero generale annunciato dalla CGIL, con l’immancabile adesione della UIL e il distacco strategico della CISL, appare come una coreografia ormai familiare. Le dichiarazioni di Landini, che denunciano i danni di una politica economica ritenuta ingiusta, suonano come un disco rotto per molti osservatori. Mentre Cangini sottolinea l’apparente inutilità di queste proteste, la vera domanda da porsi è un’altra: a cosa servono realmente questi scioperi?
La risposta potrebbe essere meno ovvia di quanto sembri. Se lo sciopero generale non ha la forza di cambiare le politiche governative, come può un leader sindacale, armato di strumenti ormai spuntati, sperare di ottenere risultati concreti? La verità è che, nella maggior parte dei casi, questi scioperi sono destinati a fallire non tanto per l’inadeguatezza delle rivendicazioni, che pure é palese, quanto per la loro organizzazione inefficace e per la mancanza di una strategia realmente incisiva. La “tazza di brodo” di cui parla Cangini, più che un rimedio poco efficace, sembra essere l’ennesima minestra riscaldata, servita più per perpetuare un rituale che per ottenere cambiamenti concreti.
Un esempio significativo di come le mobilitazioni, anche quando massicce e determinate, possano fallire nel loro intento, ci viene dalla Francia. Le potenti manifestazioni dei lavoratori di oltralpe contro la riforma delle pensioni hanno mostrato una forza d’urto davvero considerevole; tuttavia, non sono riuscite a piegare il governo fantoccio della finanza. Se un movimento così forte e radicale non è stato in grado di ottenere i risultati sperati, cosa può realmente sperare Landini con le sue mobilitazioni blande e prevedibili?
L’idea che lo sciopero possa ancora essere un’arma efficace sembra appartenere a un’epoca passata. Oggi, senza una reale capacità di bloccare il sistema produttivo e mettere in luce il ruolo della cupola mondialista, queste iniziative rischiano di trasformarsi in semplici manifestazioni di dissenso. Senza riuscire a incidere realmente sulle decisioni politiche dei governi manovrati e diretti dai veri padroni del mondo. Il richiamo di Turati, citato da Cangini, diventa quindi puerile se non volutamente fuorviante: Certo, è vero che lo sciopero è un mezzo di estrema difesa, da usarsi con ogni riguardo, ma non è questo il punto”. Oggi, questo riguardo sembra essersi perso, sostituito da una routine che svuota di significato l’azione sindacale, rendendola paradossalmente funzionale al sistema che solo a parole dice di voler combattere.
C’è un ulteriore elemento da considerare: il ruolo della stampa in questo gioco delle parti. Il giornalismo, nel riportare e commentare le azioni sindacali, spesso ne amplifica la portata o, al contrario, ne minimizza l’efficacia, contribuendo a creare la narrazione del sistema che lo controlla e alimenta. Cangini, con il suo articolo, ne è un esempio: pur cogliendo l’inutilità pratica dello sciopero, si limita a ironizzare su di esso senza approfondire le cause profonde del suo fallimento.
Questo tipo di narrazione contribuisce a mantenere in vita un’illusione: quella che lo sciopero possa ancora essere un’arma potente nelle mani dei lavoratori, quando in realtà, senza un radicale ripensamento delle strategie sindacali, rimane poco più di un atto simbolico. La stampa di regime, anziché ridursi a megafono del sistema, dovrebbe interrogarsi più a fondo su come liberarsi e liberare il movimento sindacale dai poteri che contano davvero. Magari suggerendo nuove vie o denunciando le vere ragioni della sua attuale impotenza.
In conclusione, lo sciopero generale annunciato da Landini sembra essere più un atto dovuto che una reale strategia di lotta. La metafora della “tazza di brodo” utilizzata da Cangini è efficace, ma insufficiente a descrivere la situazione. In realtà, ci troviamo di fronte all’ennesima minestra riscaldata, su cui soffiano, spruzzandosela in faccia, sia Landini che lo stesso Cangini. Una minestra che, come spesso accade, non soddisfa né nutre chi la dovrebbe consumare.
Se nemmeno i lavoratori francesi, con la loro forza e determinazione, sono riusciti a cambiare le sorti delle riforme contro cui si sono battuti, Landini dovrebbe forse riconsiderare il valore delle sue azioni. Continuare a insistere su uno strumento come lo sciopero generale, che di “generale” non ha più nulla, rischia di apparire come un esercizio di sterile propaganda, tanto inutile quanto penoso.
Il sindacato, accettando e subendo tutte le riforme dei governi della cosiddetta seconda Repubblica, è morto con la prima. E per quanto a volte i fantasmi possano manifestarsi, la CGIL non fa davvero più paura.