Siamo all’ultimo atto. La decisione di Eni Versalis di chiudere gli impianti di cracking di Brindisi e Priolo, già pianificata da anni, mette definitivamente fine alla chimica di base in Italia. Questa scelta ha generato una dura vertenza, facendo emergere tutte le debolezze della CGIL. Centinaia di posti di lavoro sono a rischio, e intere comunità si trovano in bilico. L’intenzione dell’azienda di sostituire la produzione nazionale con prodotti importati espone l’Italia ai rischi dei mercati internazionali, minacciando seriamente la nostra autonomia produttiva.
La decisione di Eni Versalis di chiudere gli impianti ha portato i rappresentanti sindacali dei lavoratori dell’indotto e degli appalti a prendere una posizione netta contro la CGIL. Il motivo? Il sindacato guidato da Landini sembra interessato più alle passerelle politiche che alla reale difesa dell’occupazione.
Le RSU locali hanno deciso di dissociarsi dalla linea della CGIL, accusandola di organizzare iniziative inefficaci, lontane dai veri problemi dei lavoratori. Così, durante le manifestazioni svolte in Prefettura il 25 e il 26 febbraio, molti hanno preferito seguire la strategia pragmatica di CISL e UIL, ritenute più affidabili per affrontare concretamente la crisi.
Le proteste di questi giorni, promosse dai dirigenti nazionali del sindacato e sostenute da quelli locali, ricordano la trama di un film dell’orrore: lo sciopero dei morti viventi. Negli ultimi anni, infatti, proprio i sindacati dei chimici hanno contribuito allo smantellamento dell’industria chimica nazionale e ora continuano la farsa fingendo opposizione. Nel nostro territorio abbiamo un esempio emblematico: un dirigente che, anche grazie al suo convinto sì alla chiusura degli impianti di Porto Torres, oggi guida la CGIL di Sassari. Periodicamente finge di indignarsi con l’ENI perché non rispetta gli impegni sulla cosiddetta chimica verde, mai realmente decollata.
Su questa vicenda abbiamo sentito l’ex segretario della CGIL di Sassari, Antonio Rudas, che all’epoca si era battuto contro tutti, incluso il suo stesso sindacato. Aveva detto no alla chiusura della chimica di base a Porto Torres, definendo l’accordo firmato nel maggio del 2011 una porcheria: carta straccia, priva di garanzie e impegni concreti.
Rudas ha così commentato:
«A mio parere il sindacato dei chimici è compromesso e da molti anni, ha perso ogni credibilità. Troppi dirigenti sono ricattabili perché dipendono totalmente dall’azienda, che garantisce loro agibilità sindacale e stipendi senza l’obbligo di lavorare. Se i lavoratori di Brindisi e Priolo vogliono avere qualche possibilità concreta di vincere questa battaglia, devono agire autonomamente. Non devono cedere di un millimetro. Finche l’ENI non avrà realmente avviato nuove produzioni in sostituzione di quelle che vuole chiudere non si devono fidare. Guai ad accettare la solita politica dei due tempi: Prima chiudono e poi danno, perché chiuderanno e non daranno mai. Tutta la storia delle relazioni sindacali di questa categoria, con alcune eccezioni, lo dimostra chiaramente. Se i lavoratori non ne terranno conto, cadranno nella solita trappola fatta di promesse mai mantenute».
Negli ultimi anni, il sindacato CGIL si è mostrato sempre più lontano dai problemi concreti dei lavoratori. Anche, a Brindisi e Priolo, la perdita di credibilità è a mille. Landini e i suoi vengono accusati di privilegiare la loro personale visibilità politica rispetto alle soluzioni reali. Questi dirigenti faticano a comprendere che slogan e promesse generiche ormai non convincono più nessuno.
Peraltro, il caso Eni Versalis non è una novità. Già in passato situazioni analoghe si sono verificate, lasciando territori devastati e centinaia di disoccupati.
Ricordiamo bene la vicenda del petrolchimico di Porto Torres, in Sardegna. Anche lì, nel 2011, Eni prometteva riconversioni produttive e garanzie occupazionali mai realizzate. Il sindacato dei chimici si limitò a raccogliere promesse vaghe senza pretendere garanzie concrete.
Il risultato? Centinaia di posti di lavoro persi e un intero territorio abbandonato al degrado. In quell’occasione, i lavoratori e alcuni rappresentanti sindacali, ebbero il coraggio di denunciare il gioco al massacro, ma furono ignorati dai vertici sindacali nazionali.
Chiudere anche gli impianti di cracking in Puglia e Sicilia significa perdere tutta l’autonomia industriale nel settore, e diventare sempre più dipendenti dall’estero. Ciò espone lavoratori e cittadini al ricatto dei mercati internazionali, un errore che non possiamo permetterci.
Eni, anche se non ha esplicitamente dichiarato di voler compensare le chiusure con importazioni, non offre comunque soluzioni alternative credibili: il lavoro non torna, e i territori rimangono impoveriti, i dividendi finanziari dei suoi azionisti privati crescono. Lasciando però allo Stato, sempre più impoverito dell’economia reale, un pugno di mosche in mano.
La CGIL non può essere più un punto di riferimento credibile per i lavoratori, almeno finché la sua oligarchia burocratica incapace non verrà sostituita da persone degne e competenti. Ma allora è se mai accadrà, nel Sassarese come in tutta la Sardegna, grazie al loro operato compromissorio resteranno solo i “Muretti a secco”.